La questione dell’obiezione di coscienza in Italia è ritornata al centro del dibattito pubblico lo scorso mese di marzo per l’ennesima decisione europea che conferma che il nostro paese continua a non garantire il pieno diritto all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), come dovrebbe essere per legge da oltre quarant’anni.

Ma guardiamo ai fatti. In Italia, 7 ginecolog* su 10 che operano negli ospedali sono obiettor*. Un dato estremamente preoccupante, quello emerso dall’ultima relazione del Ministero della Salute sull’attuazione della Legge 194/78 (sui dati relativi al 2018). La percentuale di ginecolog* obiettor* supera il 70% in quasi la metà delle regioni (ben 10), tra cui i numeri più preoccupanti si riscontrano in Molise (92,3%) e nella Provincia di Bolzano (87,2%). Inoltre, in media quasi la metà di anestesist* in Italia sono obiettor* di coscienza (46,3%), percentuali che salgono rispettivamente al 67,4% e 65% nell’Italia Insulare e Meridionale. Questo trend si conferma anche per quanto riguarda le statistiche sul personale non medico obiettore (ovvero coloro che svolgono mansioni di supporto al lavoro medico-infermieristico, come per esempio il personale addetto al trasporto delle portantine). Se a livello nazionale la percentuale di personale non medico obiettore si attesta al 42,2%, solo in Basilicata, ad esempio, 9 su 10 (l’88%) si rifiutano di compiere qualsiasi atto, anche solo marginale, che possa concorrere ad una interruzione volontaria di gravidanza.

Questo in pratica comporta che almeno il 5% delle donne si vedono costrette a spostarsi per accedere all’IVG perché nella loro provincia di residenza i tempi di attesa sono troppo lunghi, altre non vengono informate adeguatamente sui loro diritti, altre ancora vengono invitate a rivolgersi a centri privati. Il tempo passa e in molti casi diventa impossibile accedere ad una IVG entro il limite legale di 90 giorni imposto dalla Legge 194/78, il che porta molte donne e coppie a dover viaggiare all’estero in paesi con limiti gestazionali più ampi. Tuttavia, tale opzione di viaggiare lontano alla ricerca di accesso a servizi di IVG, dati i costi, i tempi e le preoccupazioni logistiche che ciò comporta, non è una soluzione alla portata di tutt* ed esacerba quindi le disparità esistenti nell’accesso all’assistenza sanitaria.

L’obiezione di coscienza, tutelata dall’art. 9 della Legge 194/78, la quale ne esplica anche i limiti, è ancora troppo diffusa in Italia , dato che per la sua estensione ostacola fortemente l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. La legge, infatti, pur garantendo al personale medico obiettore il diritto di rifiutare di determinare l’aborto (chirurgicamente o farmacologicamente), non lo autorizza ad “omettere di prestare l’assistenza prima ovvero successivamente ai fatti causativi dell’aborto, in quanto deve comunque assicurare la tutela della salute e della vita della donna, anche nel corso dell’intervento di interruzione della gravidanza“. Questo principio, evidenziato dalla Cassazione, era già esplicato nello stesso art. 9, il quale dice che “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8”. In sostanza, un* medic* che dichiara di “non poter fare nulla” sta a tutti gli effetti violando la legge. E ancora, la 194/78, permette al personale medico obiettore di non effettuare interruzioni volontarie di gravidanza; ma nessuna legge permette loro di non curare donne che stanno vivendo un aborto spontaneo o che soffrono per complicanze legate a un aborto volontario effettuato da un altro medico; né la legge permette di non intervenire quando la vita della donna è in pericolo immediato.

Ma percentuali così elevate di obiezione in tutte le categorie possono davvero essere esclusivamente legate a questioni di coscienza? In realtà, i motivi per cui  il personale medico (e non) sceglie di dichiararsi obiettore di coscienza non sempre sono di natura etica o religiosa. Al di là di questi, una grande porzione si dichiara obiettor* per “spossatezza” – perché magari precedentemente essendo stat* un* de* poch* professionist* a praticare IVG in un determinato territorio, è rimast* schiacciat* ed esaurit* dal numero di procedure eseguite – o per “comodità” da un punto di vista di carriera.  Su quest’ultima fattispecie, infatti, già nel 2016 il Consiglio d’Europa, su ricorso della Cgil insieme a LAIGA, aveva richiamato l’Italia sia per le difficoltà di applicazione della legge 194/78, sia per la “discriminazione” subita dal personale medico e infermieristico non-obiettore. Essere non obiettor*, infatti spesso significa rinunciare a importanti occasioni di carriera. Questo perché, molti dei primari degli ospedali sono obiettori provenienti da università cattoliche, il che fa sì che all’interno delle strutture sanitarie aleggi un messaggio molto chiaro, che tende ad ostacolare coloro che se ne distaccano. In definitiva, coloro che non sono obiettor* spesso si ritrovano ad essere discriminat*, sia dai collegh*, sia delle politiche di assunzione e promozione che privilegiano il personale obiettore.

Esattamente 5 anni fa, l’11 aprile 2016, con una decisione, il Consiglio d’Europa ha stabilito che l’Italia discrimina personale medico-sanitario che non ha optato per l’obiezione di coscienza, sostenendo che quest* siano vittime di “diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti”. A 5 anni da quella decisione la situazione non è cambiata, come lo stesso Comitato Europeo dei Diritti Sociali ci ha ricordato solo due settimane fa, anzi risulta peggiorata. LAIGA, Libera Associazione Italiana di Ginecologi per l’Applicazione della Legge 194, si batte ogni giorno dal 2008 affinché questo diritto sia rispettato. In questo triste anniversario, LAIGA vuole ribadire di essere al fianco delle donne e di tutt* coloro che decidono di voler interrompere una gravidanza, e al fianco di tutto il personale medico (e non) che non obietta e che ritiene un dovere civile e morale garantire l’autodeterminazione e il rispetto dei diritti sessuali e riproduttivi di tutt*, anche a costo di pagarne le conseguenze in prima persona.

Interrompere volontariamente una gravidanza è una scelta personale, ed è tutelata dal diritto all’autodeterminazione di ognuna. Né un’opinione personale, né un credo religioso, né una scelta logistica o di carriera, né ancor meno uno slogan politico possono essere ritenuti al di sopra questo.

Di Carmelina D’aniello